martedì 5 agosto 2014

I giorni della felicità

Non gliene vogliate se ultimamente fa come NonnaG quando ritaglia gli articoli che M non può perdere. Ma sarà che in ufficio ha più tempo per leggere, sarà che le sembra tutto molto condivisibile, sarà che senza i nani per casa  ha meno da raccontare, stasera M prende in prestito un'altra storia, quella dell'emiro di Cordoba e dei suoi 14 giorni di felicità.

di Daria Bignardi
Arthur C. Brooks ha cinquant’anni, vive a Washington, ha insegnato economia e politica all’università e ora presiede l’influente think tank American Enterprise Institute. Due mesi fa era stato in Italia, invitato dall’Istituto Bruno Leoni a discutere di liberismo, e aveva parlato del suo argomento di studio preferito: la felicità. La settimana scorsa Brooks ha pubblicato sul New York Times un articolo su felicità e infelicità che a noi italiani – abituati a studiare o respirare filosofia, a scuola o nell’aria, fin da ragazzi – fa sorridere, ma che in America ha acceso molti dibattiti.
Che cosa dice? In definitiva, quel che dicono il Dalai Lama, Gesù Cristo, la maggior parte dei filosofi e soprattutto le nostre nonne: ama le persone, non le cose. Il materialismo non ti renderà felice, i soldi e la fama non ti renderanno felice, gli altri invece sì: amare parenti, amici, conoscenti, estranei e persino nemici è l’unica cosa che può garantirti la felicità, o almeno dissipare l’infelicità.
Niente di nuovo, ma di interessante c’è che questa riflessione non viene da un filosofo o un religioso o una nonna, bensì da un potente e brillante sociologo americano che scrive di politica ed economia, e che per arrivare a questa conclusione ha analizzato montagne di dati statistici.
Nel suo articolo Brooks parte da Abd al Rahaman III, emiro di Cordova del decimo secolo, il quale lasciò scritto che, dopo aver regnato cinquant’anni tra assolute ricchezze e onori, poteri e piaceri, aveva contato quanti giorni era stato felice nella sua vita, e aveva concluso che erano stati quattordici. Da Abd al Rahaman ai giorni nostri Brooks ha proceduto analiticamente per dimostrarci quello che la nonna ci ha sempre detto, vedi sopra.
Ogni volta che leggo questo genere di riflessioni – sacrosante, per carità – da parte di qualche importante analista americano, mi sento molto fortunata per essere italiana, alla faccia di tutte le nostre crisi, magagne e miserie: perché abbiamo avuto e abbiamo ancora qualche nonna che ci ricorda, senza bisogno di leggere il New York Times, quello che veramente conta.
Di tutta questa discussione (buona per l’ombrellone, e potete citare il New York Times, hai detto niente) a me ha colpito soprattutto una cosa: i computi dell’emiro. Un gioco irresistibile. Provate a farlo, sotto l’ombrellone, e vi accorgerete che non è poi così facile arrivare a quattordici, se ci mettiamo seriamente a contare i giorni di assoluta felicità.
La felicità non si misura a giornate ma a istanti, emozioni, squarci, confusi brandelli di immagini, sogni e ricordi: un giorno completamente e pienamente felice, dal momento del risveglio a quello in cui si va a dormire, non è scontato da ritrovare. Qualcuno ricorderà che da bambino era sempre felice, ma vai a capire se spensieratezza – posto che uno da bambino sia stato davvero spensierato – stia per felicità.
Qualcun altro citerà nascita di figli, matrimoni e in generale innamoramenti (ricambiati, se no l’amore è un inferno), esami superati, successi professionali, viaggi, incontri, disgrazie scampate, dolori superati, ricordi legati alla contemplazione della natura. Ma quattordici giorni completamente felici non sono uno scherzo! Provate a contare i vostri e vedrete che il povero emiro sbertucciato da Arthur C. Brooks non era poi messo tanto male.


Prossimamente i momenti/giorni di felicità di M e, se vorrete, i vostri.